ROMA, 22 febbraio - La scissione è compiuta. Si consuma senza guardarsi in faccia la rottura dentro il Pd: i bersaniani non partecipano alla direzione e annunciano con Roberto Speranza di essere al lavoro "per un nuovo soggetto di centrosinistra", Matteo Renzi vola in California, convinto che "peggio delle scissioni ci sono i ricatti". Chi, invece, dopo varie titubanze, decide di restare nel Pd e di sfidare al congresso il leader dimissionario è Michele Emiliano che prende un'altra strada rispetto alla minoranza "perchè il Pd è casa mia e nessuno può cacciarmi".
Una casa che il fondatore Romano Prodi guarda ormai da lontano assistendo a quello che definisce "un suicidio politico". Da oggi il Pd cambierà volto (con un ex segretario e storico protagonista della sinistra di governo come Pierluigi Bersani che annuncia che non rinnoverà la tessera Pd) anche se i numeri degli addii saranno inferiori a quelli che sembravano domenica scorsa. I bersaniani già giovedì formeranno gruppi autonomi sia alla Camera sia al Senato non capendo la scelta di Emiliano di "candidarsi nel Pdr", il partito di Renzi. Con l'invito, di D'Alema a Pisapia a "lavorare insieme".
La decisione tormentata del governatore pugliese matura tra lunedì notte e martedì dopo una serie no-stop di telefonate frenetiche e di riunioni. In direzione Emiliano arriva senza più credere che gli ultimi tentativi di mediazione vadano in porto. Addolorato per la rottura con Roberto Speranza ed Enrico Rossi, "persone perbene, di grande spessore umano che sono state offese e bastonate dal cocciuto rifiuto ad ogni mediazione". Perchè, rimanda la palla nel campo avverso, "Renzi è il più soddisfatto per ogni possibile scissione".
Ma siccome "chi lotta può perdere ma chi non lotta ha già perso", il governatore pugliese decide di "dare battaglia come il Che" al fortino renziano. Una scelta che però gli attira le dure critiche di Bersani e D'Alema ("farà i conti con la sua coerenza") e Enrico Rossi ("ognuno ha il suo modo di comportarsi") con l'ex segretario che in serata a DiMartedì non risparmia un attacco neppure a Renzi confessando: "con lui ho capito dal primo giorno che non mi sarei mai preso" accusandolo poi di aver deciso le dimissioni "per salvare se stesso mettendo a rischio la Ditta". Una Ditta che Bersani vede di nuovo in campo con l'iniziativa degli scissionisti e che, assieme a D'Alema, lo vedranno lottare per ricostruire una 'cosa rossa'. Ma la cui leadership, dice l'ex premier a Cartabianca, "non può essere nè di D'Alema nè di Bersani. Noi ci saremo", ma "in questo momento i leader naturali sono Enrico Rossi e Roberto Speranza".
Nell'altro campo, quello del Pd, anche se non ha ancora tratto il dado, è il Guardasigilli Andrea Orlando che oggi lancia il suo blog Stato presente. E chiarisce che la sua candidatura non dipende dalle scelte di altri sfidanti, come a dire che non sarà la discesa in campo di Emiliano a bloccare la sua corsa. "Non mi candido - chiarisce Orlando - a guidare l'opposizione del Pd se mi candido è per guidare il partito". Una sfida che, anche senza la sinistra interna, si annuncia senza sconti e che Matteo Renzi affronterà con l'obiettivo di riaffezionare militanti e iscritti dopo lo choc della rottura. "Gli addii addolorano ma non possiamo bloccare oltre la discussione nel Pd e nel paese", sostiene il leader dimissionario che trascorrerà qualche giorno negli States. Prima di buttarsi nella battaglia che, secondo i suoi piani, il 7 maggio lo legittimerà di nuovo come segretario.
La direzione ha eletto i membri della commissione Statuto, composta in rappresentanza di tutte le correnti e che definirà nei prossimi giorni le regole. Per bloccare la scissione a nulla sono serviti gli appelli accorati dei padri nobili del Pd, nè di Veltroni nè di Fassino in assemblea, nè di Enrico Letta e oggi quello di Romano Prodi che ha confessato la sua angoscia e il fatto di essersi attivato con decine di telefonate per scongiurare il peggio.
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